Concerto di domenica 21 ottobre 2007


Ciclo “Un Titano a Milano”


Ludwig van Beethoven (1770 - 1827):

Quintetto op. 16 in mi bem. maggiore per pianoforte, oboe, clarinetto, corno e fagotto
Grave - Allegro ma non troppo
Andante cantabile
Rondò: Allegro, ma non troppo


Francis Poulenc (1899-1963):

Sestetto per pianoforte, flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno

  1. Allegro vivace (Trés vite et emporté)

  2. Divertissement (Andantino)

  3. Finale (Prestissimo)



I Fiati dell’Orchestra Cantelli:

Curt Schröter, flauto

Silvano Scanziani, oboe

Laura Magistrelli, clarinetto

Enrico Bellati, corno

Fausto Polloni, fagotto


Luca Schieppati,pianoforte

 

“Il dolore degli eredi” , intitola Rossini il tutt’altro che addolorato valzer che chiude il suo “Un petit train de plaisir”, dopo che un “terribile deragliamento” ha mandato al Creatore (o all’inferno) i passeggeri. Ed effettivamente, di solito le eredità, in senso patrimoniale, sono quanto meno potenti stimoli alla elaborazione di un lutto. Ma ci sono anche eredità immateriali, lasciti non dichiarati, magari non desiderati dall’interessato, ma attribuiti da una più o meno autorevole opinione altrui, e questo tipo di lasciti può intimorire, inibire, imbarazzare, mettere più in difficoltà di quanto non sia di aiuto. Di questo genere mi sono sempre apparsi gli auspici dei primi estimatori di Beethoven affinché il giovane Ludwig divenisse a Vienna il nuovo Mozart, rilevando il di lui spirito, secondo il celebre augurio del conte Waldstein, dalle mani di Haydn. Ma per sua e nostra fortuna, l’orgogliosissimo giovanotto non si sentiva affatto al di sotto delle aspettative, ed è difficile immaginare che non fosse consapevole, oltre che della comune grandezza, anche della peculiarità, e delle profonde differenze, del suo genio rispetto a quello mozartiano. Esemplare per la comprensione di questa mancanza di soggezione è il Quintetto op. 16, scritto tra il 1796 e il 1797. Qui non si trattava solo di mostrare in astratto delle affinità con un ideale stilistico, bensì di prendere in considerazione un modello ben preciso; e che modello! Il Quintetto K 452, scritto da Mozart solo 10 anni prima, era un capolavoro di cui lo stesso suo Autore arrivava a dire: “è la cosa migliore che abbia mai scritto”, e del quale tra i musicisti si conservava ben viva la memoria. Per fare un esempio più vicino ai nostri tempi: come se a un regista debuttante si chiedesse di girare un remake de” La dolce vita”, o del “Gattopardo”, o comunque di un capolavoro unaninemente riconosciuto: chi accetterebbe? Beethoven accettò: quando dei musicisti berlinesi gli chiesero un brano con il medesimo organico del quintetto mozartiano, non si tirò indietro e, secondo il suo carattere, affrontò il cimento senza vie traverse. Stesso organico, e questo era richiesto. Ma anche stessa tonalità, mi bemolle maggiore, stessa successione di movimenti (Allegro di Sonata preceduto da ampia introduzione lenta, movimento lento di alta cantabilità, brillante rondò conclusivo), e il piacere dell’ammicco tra addetti ai lavori attraverso la citazione quasi letterale di un paio di Arie del Don Giovanni1. Con queste premesse, ci si aspetterebbe uno dei tanti esempi di, sia pur alto, epigonismo; invece il linguaggio beethoveniano emerge travolgente, personalissimo, ed è il linguaggio dei tempi nuovi, di quegli anni formidabili in cui il Bonaparte iniziava a ramazzare i vecchi poteri partendo dall'Italia.

Jean-Antoine Gros: Napoleone Bonaparte sul ponte d'Arcole

E il vento impetuoso di Lodi e di Arcole sembra arrivare fin nella partitura del Quintetto op. 16, ti par di sentirlo nelle raffiche di terzine che aprono gli sviluppi del primo movimento trasponendo, ma vien da dire trascinando, la figura che aveva chiuso l'esposizione in tonalità sempre più remote, e l'effetto è come se mentre stai suonando qualcuno ti spostasse il pianoforte da sotto le mani; o nell'uso abbondante delle ottave, impiegate non solo per rinforzare qualche tema, ma anche per stupire con il gesto ardimentoso, come quelle velocissime che inopinatamente appaiono nella conclusione dell'Andante cantabile, accompagnate per di più da un tonitruante tremolo nel registro grave. E nel tono popolare del tema di Rondò non vi è più nulla della ironia, né della roussoviana idealizzazione, di alcuni rondò mozartiani: il suo humour è vero buon umore, è risata sana e aperta, non distaccato, disincantato sorriso; è come se Beethoven si compiacesse nel farci ascoltare la musica, presente e viva, di quel Terzo Stato che, dopo secoli di invisibilità, era giunto sul proscenio della Storia.

Impeto, ardimento, buon umore, ma non solo: questa giovanile, estroversa baldanza sa coniugarsi a tratti anche con momenti di pura astrazione, di ipnotiche figurazioni pianistiche (penso soprattutto alle terzine che concludono il secondo Tema nel primo movimento; o alla preparazione della prima ripresa nell'Andante cantabile) che già prefigurano le vere e proprie estasi sonore di alcune delle future sonate, op. 53 e op. 111 in particolare.

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Francis Poulenc è stato senz'altro uno dei più grandi musicisti del Novecento. Sembrerebbe una banalità (e quindi non dispiacerebbe a un Autore che ha intitolato proprio Banalitées alcune delle sue eleganti chansons), ma è sempre meglio ripeterlo, poiché troppo spesso drastici, ingiustificati giudizi hanno confinato Poulenc nel ruolo di epigono del neoclassicismo stravinskiano, se non addirittura di spensierato creatore di musica leggera. La sua “colpa” maggiore probabilmente è stata l'eclettismo: nel secolo delle ideologie mal si perdonava a un artista di scrivere (e soprattutto saper scrivere) in tutti gli stili, per tutti i gusti, per tutte le occasioni. «Non ho principii e me ne vanto», amava ripetere, e si capisce che ciò, agli apocalittici bacchettoni engagés, non poteva andar giù. Ma oggi, trascorsi quasi 50 anni dalla morte (tra l'altro, segnamoci il 2013 per delle adeguate celebrazioni), oggi che riusciamo finalmente a goderci la sua inesauribile vena melodica, il suo straripante umorismo, la sua invidiabile maestria armonica senza sensi di colpa, siamo anche in grado di apprezzare la finezza della sua scrittura, la ricchezza della sua cultura, la profonda interiorità di tante sue pagine. Il Sestetto per pianoforte e fiati, scritto tra il 1932 e il 1939, dedicato all'amico Georges Salles, insigne orientalista e storico dell'arte, è esempio fulgido e completo di tutte le qualità del suo Autore: lussureggiante veste sonora, con tutti gli strumenti messi a dura prova da passi di grande virtuosismo, e inebriante varietà stilistica dei temi, che con sublime leggerezza passano dal café chantant, alla balera, al circo, senza trascurare né il jazz, né il tono alto della tradizione colta, ben presente nella nobiltà dei temi cantabili, nonché nella straniante voce del fagotto solo, che per due volte si isola inseguendo arcaismi quasi gregoriani; e vien qui da ricordare che nell'animo di questo enfant terrible, pupillo di Jean Cocteau al pari degli altri simpatici scapestrati del gruppo dei Sei2, trovava profonde radici una fervida fede religiosa, testimoniata negli anni '50 da un capolavoro come "Les dialogues de Carmélites". Tutto questo caleidoscopio di suoni, timbri, ritmi viene fuso in un conio di magistrale equilibrio, tre movimenti a loro volta tripartiti, con parti centrali contrastanti, e una Coda conclusiva dal tono apoteotico3 (à la manière del raveliano Jardin fèerique).

Francis Poulenc (a destra) insieme a Darius Milhaud e Jean Cocteau

Così come nel Quintetto di Beethoven non possiamo non sentire gli echi dell'incipiente era napoleonica, altrettanto credo possiamo meglio capire l'impasto di sfrenato divertimento, annichilente malinconia, ironico straniamento, inquietanti furori dinamici del Sestetto di Poulenc ricordando gli anni in cui fu scritto, quegli anni '30 nei quali metà Europa preparava la catastrofe e l'altra metà faceva finta di nulla; e penso in particolare al 1939, l'anno il cui il Sestetto viene dato alle stampe nella sua versione definitiva, che è anche l'anno della drôle de guèrre, come la chiamavano i concittadini di Francis Poulenc, ovvero la guerra strana, buffa, assurda, che da qualche parte verso est già era iniziata, ma che a Parigi era come se non ci fosse. Quanto i parigini, i gaudenti viveurs come gli annoiati esistenzialisti, fossero in errore, l'avrebbe di lì a poco reso evidente l'invasione nazista. Chissà, forse, prestando ascolto alle premonizioni di imminenti sciagure che gli artisti, veri sismografi delle vicende umane, allora come sempre esprimevano nelle proprie creazioni, forse qualche tragica deriva si sarebbe potuta evitare. E chissà, forse questo discorso può valere anche per noi: ascoltiamo, ascoltiamo sempre, con la mente aperta ed il cuore vigile...Luca Schieppati

1 "Batti,batti o bel Masetto" è imitato dall'inizio dell'Andante cantabile; il Rondò conclusivo ricorda "Metà di voi qua vadano"; quest'ultima citazione è assai più nascosta della prima, ne devo il rinvenimento più che alle mie pigre orecchie alla lettura del fondamentale "Beethoven" di Piero Buscaroli.

2 Ricordiamo brevemente almeno i nomi degli altri cinque componenti di questo gruppo, protagonisti della dolce vita, culturale e non solo, parigina degli anni '20: George Auric, Louis Durey, Darius Milhaud, Arthur Honegger, Germaine Tailleferre

3 So che questo aggettivo non si trova sui dizionari italiani; ma lo usò Ferruccio Busoni in una sua composizione, e mi sembra adattissimo ad esprimere alcuni luoghi musicali di particolare solennità.